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Parigi, assalto al giornale satirico: 12 morti. Voi cosa ne pensate?

Ultimo Aggiornamento: 03/09/2016 20:31
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07/01/2015 17:43

Vi do un ottimo spunto.

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07/01/2015 17:45

A prescindere dalla religione, è assurdo morire per un motivo simile. L'uomo è capace di compiere le peggiori atrocità in nome di ciò in cui crede.
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07/01/2015 19:31

Cito un mio professore guerrafondaio che però tende sempre ad azzeccarci con mesi d'anticipo:
L'attentato di Parigi dimostra ancora una volta che il terrorismo è un problema politico militare e non giuridico. I terroristi vanno trattati da nemici non da criminali. Altro che processi o tribunali internazionali. Vanno eliminati e va eliminato chiunque gli offra anche un caffé".

Assad, tra l'altro, due paroline contro i finanziatori dei terroristi (ovvero noi occidente) le aveva lanciate!
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07/01/2015 20:36

Un professore di giurisprudenza non dovrebbe mai insegnare questo genere di cose né dovrebbe parlare di nemici ed eliminazione fisica per vendetta e/o prevenzione, sono concetti assolutamente non contemplati dal diritto (ne cives ad arma veniant).
Poi se vogliamo vederla come scontro fra civiltà... prego, ma non mi sembra il caso.
Non mi piace la polemica che si sta sviluppando sotto quest'argomento e soprattutto i social stanno diventando un vero e proprio letamaio.
[Modificato da Davide 07/01/2015 23:48]



07/01/2015 21:12

Dopo la Primavera Araba c'erano due cose da fare: sostenere Morsi come islamico moderato e sostenere Assad come rais vecchie maniere. Indovinate cos'ha fatto Obama? Indovinate cosa suggeriva Putin?

ricicardo, 07/01/2015 19:31:

Cito un mio professore guerrafondaio che però tende sempre ad azzeccarci con mesi d'anticipo:
L'attentato di Parigi dimostra ancora una volta che il terrorismo è un problema politico militare e non giuridico. I terroristi vanno trattati da nemici non da criminali. Altro che processi o tribunali internazionali. Vanno eliminati e va eliminato chiunque gli offra anche un caffé".



A lui non offritegli dell'alcol ché lo produce già di suo. E lo scrive uno che è contrario ai tribunali internazionali, da Norimberga fino alla Bonino, ma che ritiene che in tempo di pace debba essere il diritto a regolare la vita sociale. Oltre al fatto che già la definizione la(va)bile di terrorista, o di mafioso (uhhh, fire, ma cosa stai dicendo?), comporterebbe qualche problema di esplicitazione.


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07/01/2015 23:49

Severo ma giusto.



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08/01/2015 10:44

Re:
Davide, 07/01/2015 20:36:

Un professore di giurisprudenza non dovrebbe mai insegnare questo genere di cose né dovrebbe parlare di nemici ed eliminazione fisica per vendetta e/o prevenzione, sono concetti assolutamente non contemplati dal diritto (ne cives ad arma veniant).
Poi se vogliamo vederla come scontro fra civiltà... prego, ma non mi sembra il caso.
Non mi piace la polemica che si sta sviluppando sotto quest'argomento e soprattutto i social stanno diventando un vero e proprio letamaio.




Professore di economia, prestato a Giurisprudenza per le materie in ambito economico, che fa parte del genio militare di Torino.
Credo che porgere l'altra guancia con processi in cui bisogna poi anche provare determinate cose con certi fenomeni non sia la strada migliore. Quella è guerra, benchè mascherata, a meno che non siamo rimasti a 60 anni fa in cui per considerare una guerra ci vuole la dichiarazione ufficiale e il ritiro dei propri ambasciatori dal paese nemico.

Comunque, qualcuno crede al fatto che un attentatore abbia lasciato la CI nella macchina abbandonata?
[Modificato da ricicardo 08/01/2015 10:47]
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08/01/2015 13:22

OK, adesso è tutto chiaro. [SM=x52092]
Sì, effettivamente ci sono delle anomalie e infatti Icke si è sbizzarrito... rettiliani a tutto spiano fra 3... 2... 1...
Qui ho scritto qualcosa sul diritto di cronaca, di satira e così via:

basket.freeforumzone.leonardo.it/d/10940240/Giampiero-Hruby-fa-causa-a-blog-che-lo-chiama-menagramo-d-un-menagramo-/discussi...

Non so quanto può c'entrare, giusto per fare il quadro.



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08/01/2015 13:31

Ah, una cosa importante.
Non voglio passare come un eroe, ci mancherebbe, ma Slam e BC hanno sempre avuto un atteggiamento irrisorio nei confronti di molte realtà sportive, io stesso ho sempre fatto giornalismo provocatorio (che non sempre viene capito, mi riferisco sopratutto ai miei post cazzoni sul forum).
La mia direttrice una volta mi ha detto: "Guarda, se puoi far arrabbiare un po' di gente tanto meglio", consiglio che poi dovrebbe essere visto nel suo complesso e non nella mera frase, ad ogni modo un po' per la mia parte "napoletano-casinara", un po' per Iulius che era un mulo ribelle, un po' per la mia formazione giornalistica, in un certo senso posso capire questi vignettisti e io stesso mi sono preso delle minacce anche per stupidaggini (addirittura colori di maglie e nomi di squadre).
Purtroppo questa è una realtà di intolleranza, facciamoci l'abitudine.



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09/01/2015 10:00

Una lettera aperta scritta da Terzani nel 2001 a Oriana Fallaci in risposta all'articolo “La rabbia e l’orgoglio” che la scrittrice aveva pubblicato all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre.
Sono passati 14 anni eppure è terribilmente attuale.

Un punto di vista diverso che mi trova in parte d'accordo. Scusate, e' un pò lungo ma credo valga la pena leggerlo...mi sono permessa di grassettare le parti secondo me significative per facilitare la lettura.

Il Sultano e San Francesco
Non possiamo rinunciare alla speranza


<< Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle “Lettere da due mondi diversi”: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti.

Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione.

Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. “Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia”, scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere ‘Gli ultimi giorni dell’umanita’, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualità.

Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilità perchè certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. “Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me”, scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: “Finché l’uomo non si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza”.

E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, “Libertà duratura”. O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmeno questa.

Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via.

Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari “intelligente”, di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per sé un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.

In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart). L’autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che è anche una protezione – lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perchè col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine.

Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle “Tigri Tamil”, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di “Hamas” che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perchè vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.

Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perchè io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.

Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure “un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da’ di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo “contraccolpo” al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.

Il “contraccolpo” dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana “a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico”. Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.

Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi “amici”, qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’occasione per uscirne è ora. Perchè non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perchè non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi “contraccolpi” che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli “orribili” talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan.

E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo “codardi”, usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni.

L’aver diviso il mondo in maniera – mi pare – “talebana”, fra “quelli che stanno con noi e quelli contro di noi”, crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro. Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle “cicale” ed agli intellettuali “del dubbio” va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.

In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo “ufficiale” della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l’America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici – me ne rendo conto – è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.

Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto “a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia“, come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese?

Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: “Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme”. Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per “gli altri”, per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati (“vide il male ed il peccato”), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn – era il 1219 – perchè sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perchè, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.

Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire.

Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: “La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo più umano?”. A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere “No”. Ma non possiamo rinunciare alla speranza. “Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?”, chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. “E possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?” Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: “Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto“.

Per difendersi, Oriana, non c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, “vede” che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? “Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate”, scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si.

L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il “terrorista” possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?

Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. “Dateci qualcosa di più carino del capitalismo“, diceva il cartello di un dimostrante in Germania. “Un mondo giusto non è mai NATO“, c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo “più giusto” è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità.

La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perchè ora tornano comodi, è solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i “lavoretti sporchi”, di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera.

Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perchè i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perchè i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. E così perchè anche Firenze s’é “globalizzata”, perchè non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.

La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perchè se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte. >>


Fonte: Blog MG.it
09/01/2015 10:38

La guerra ALL' - e non IN - Afghanistan, e il genocidio conseguente, è a tutt'oggi un indelebile onta sull'Occidente ma forse dovremmo uscire dalla logica, anche terzaniana, di occidocentrizzare il mondo, perché in quest'epoca multipolare anche quello che accade direttamente a noi spesso ha dinamiche solo apparentemente legate al nostro, inteso come Occidente, esclusivo operare. La Storia non la si fa più - solo - a cavallo dell'Atlantico Settentrionale.
[Modificato da the fire bug 09/01/2015 10:39]
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09/01/2015 12:11

Sono d'accordo ed è stato un errore sottovalutare questo aspetto.
Mi ricorda tanto un libro della Gamberale: bisogna uscire da Egoland.
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09/01/2015 12:17

Concordo Fire sul processo di occidentalizzazione che facciamo sia fisicamente con certe campagne militari sia mentalmente quando ragioniamo su tematiche di altre culture con i nostri dogmi mentali.

In ogni caso il terrorismo non è assolutamente assimilabile alla mafia, non è un'organizzazione criminale, è un tipo di guerra asimmetrica: curioso di sapere quanti di coloro che tengono le matite in mano sono disposti intanto ad eliminare ogni traccia dell'IS mandando propri uomini e donne a combattere. Perchè a sto punto è di questo che si parla, fare ora quel che andava fatto qualche mese fa evitando determinate prese di consapevolezza di una parte del fondamentalismo (come detto dal nostro ministro degli Esteri, quasi a sorpresa).
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09/01/2015 14:06

Trovo vergognosa questa mentalità del faccio solo se succede qualcosa di grave che a quanto pare non abbiamo solo noi italiani.
Avevano già fatto saltare in aria la sede del giornale, rimediano mettendo di guardia un poliziotto per il solo direttore? E nel periodo dell'ISIS? Bisogna essere deficienti.



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09/01/2015 14:49

Dunque, io ho letto con calma l'articolo e tutto il topic e, pur con un post breve, volevo dire che io questi grandi cambiamenti nel mondo non li vedo. Secondo me siamo sempre gli stessi con la nostra voglia di prevalere e le guerre sono sempre uguali, ci può essere più tecnologia, ma cambia poco.
Il Papa (chiedo scusa agli atei se lo nomino, non ho nessuna pretesa religiosa, fate conto che lo metta in ballo come un capo di Stato) ha detto che stiamo vivendo la terza guerra mondiale, se date un'occhiata qui potete avere un quadro su cosa sta succedendo:

it.wikipedia.org/wiki/Guerra_al_terrorismo

Penso che fra 10/15 anni ci sarà chi la chiamerà "terza guerra mondiale", perché no? Dal 2001 ci ha colpiti tutti, da Nassiryia a Mumbai, e lo sta facendo a tutt'oggi.
Io non sono uno stratega e non so cosa fare per vincere la guerra (soprattutto se l'hanno iniziata altri per noi), onestamente sono quasi convinto che non si possa mai vincere qualsiasi parte si prenda.
Credo che dovremmo porci tutti una questione importante, ossia: esiste un sistema che non causa casini? Perché tanti grandi pensatori ci stanno insegnando che anche il capitalismo sta fallendo e che comunque si sfocia sempre nella guerra.
Io per adesso mi sono risposto che le sorti di un paese dipendono molto dalla sua popolazione e dalla mentalità globale che c'è in quello stato. Ad esempio la Cina è comunista, ma si è aperta al mondo e ha allontanato numerose antipatie dalle quali sarebbero potuti scaturire casini, al contrario della Corea del Nord.
Forse la mia è una visione troppo semplicistica e, credetemi: il nostro sistema mi piace, però alla fine per una vignetta, un pozzetto di petrolio o una scorreggiatina di gas si arriverà sempre ad ammazzarsi a vicenda ed è qui che la popolazione dovrebbe unirsi e cercare di andare d'accordo con se stessa e con gli altri. Naturalmente in tutto questo subentrano i media, i Governi, ecc... non mi dilungo perché non voglio essere polemico.
Purtroppo le mele marce sono dappertutto e lì il campo è criminologico e non certo politico, infatti se vogliamo vederla da un punto di vista criminologico/di casistica la vicenda è quasi identica all'attentato alla maratona di Boston, con tanto di due fratelli braccati.



09/01/2015 15:02

come si combatte un terrorismo di matrice islamica che per la prima volta parla bergamasco, siciliano, bavarese, parigino, andaluso ecc ecc?
Poi, visto che dal punto di vista geopolitico non avrei nulla da aggiungere a quanto scritto dal fire (allungherei l'elenco degli errori-orrori citando la splendida campagna libica), posto questo articolo(non perché lo condivida in toto, ma mi sembra possa alimentare la discussione) che pone l'accento più sul fenomeno di costume che sta montando in questi giorni :


Non siamo tutti Charlie Hebdo.

Ogni volta che succede una cosa drammatica come l’assalto a Charlie Hedbo succede che si aprono le fogne, e ne vengono fuori i soliti fondamentalisti del pensiero a reti unificate (pensiero unico è troppo, per questa gente qua); quelli che ti dicono cosa devi dire, quando lo devi dire, chi devi biasimare, a che ora e in quale modalità. Un rituale che va ben oltre l’elaborazione del lutto. Non ha funzione consolatoria, non mira al superamento. Vuole invece che tutto si svolga esattamente secondo una cosa che tutto è tranne un rituale, che invece ha sempre una sua sacralità. Questi pretendono, invece, che tu ti attenga al copione. Che, nel caso della strage al Charlie Hebdo, recita più o meno: porca puttana che sciagura-maledetti dovete morire-cambiamo la foto profilo e mettiamoci quella dele vittime-sentiamo che dicono gli opinion leader e facciamo sìsì-rompiamo il cazzo a chi non fa esattaemnte come facciamo noi.

Se non fai così, se non fai come fanno tutti, sei una merda, uno che non condanna il fondamentalismo e le stragi.

Solo che fare così era esattamente il mestiere dei morti e dei sopravvisuti di Charlie Hebdo.

Che non a caso, da tempo,stava sul cazzo a tutti. Dai fascisti della Le Pen, gli amichetti di Salvini, alla sinistra radicale, che li accusava di essere islamofobici; un range di nemici che, per chi cerca di non pensare a reti unificate, è una medaglia d’onore, da appuntarsi sul petto e sfoggiare con orgoglio. Per questo mi incazzo, perché è chiaro che non tutti hanno il diritto di dire siamo tutti Charlie Hedbo. Non basta raccogliersi come schiattamorti intorno ai cadaveri per perorare le vostre cause di merda. Questi, invece, sono morti per una causa che non era la vostra: era la loro. Era la causa dell’intelligenza, del non dire quello che dite voi, del non pensare se prendere una posizione ti porterà denaro o nemici. Era la causa del dirlo perché lo pensi e nei modi che vuoi.

Che oggi, a piangere i morti e a sfruttare il dolore dei sopravvissuti, ci siano quelli che mai e poi mai avrebbero permesso a Charlie Hebdo di esistere, e se fosse esistito avrebbero fatto carte false per farlo chiudere, non mi sta bene. Voi che vi lamentate se uno scrive cazzo o se non applaude i vostri comici preferiti, che segnalate su Facebook (maestra, quello dice le male parole!), guardatevi bene la copertina di Charlie in cui si vedono Padre, Figlio e Spirito Santo che giocano a incularella, e chiedetevi se l’avreste comprato, quel numero lì. Le parole contano, e almeno davanti alla morte, dovete sapere che la regola del vale tutto non funziona. Ecco perché non tutti possono dire siamo tutti Charlie Hebdo.

Io non posso perché non sono mai stato abbastanza bravo, e perché sarei scappato al minimo accenno di minacce: lo ammetto. Mi sarei rintanato tremando come un sorcio.

Ma voi, voi, non siete Charlie Hebdo perché eravate tutto quello che Charlie Hedbo combatteva.

Piangetevi i vostri, di morti.

www.amlo.it/?p=4618



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09/01/2015 15:38

=Condor11=, 09/01/2015 15:02:

come si combatte un terrorismo di matrice islamica che per la prima volta parla bergamasco, siciliano, bavarese, parigino, andaluso ecc ecc?


Secondo me questo è un falso problema mediatico: continuano a tirarlo fuori, ma se avessero voluto far saltare in aria mezza Europa l'avrebbero già fatto.
Non metto in dubbio che il fenomeno esista, infatti il Ministero dell'Interno si è già attivato in tal senso, ma ho dei dubbi sul suo reale pericolo e soprattutto sulla sua portata per l'Europa e gli USA, anche perché proprio in quanto "entrati nella mentalità della nostra cultura" certe voglie "rivoluzionarie" si assopiscono.
Attenzione alle vaccate mediatiche perché per loro siamo già sotto assedio.
Riguardo il #jesuischarlie è molto in voga soprattutto fra chi parlava di "Uomini e Donne" su Twitter il giorno prima... è gente che non sa neanche di essere al mondo e che usa l'hashtag perché fa "in". Non ho mai e dico mai letto così tante frasi islamofobiche e di odio da quelli che il giorno prima erano persone comuni che parlavano di cagnolini e dolci di Natale, avrò defollowato almeno 200 utenti.



09/01/2015 15:39

non è una vaccata mediatica, gli assassini parlavano un francese perfetto, sono nati e cresciuti lì, così come gli italiani che partono per la Siria arruolandosi nel califfato
[Modificato da =Condor11= 09/01/2015 15:40]
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09/01/2015 15:42

Non ho detto che è una vaccata mediatica, ho detto che è un falso problema mediatico e che, pur non negando la questione, ho dei dubbi sulla sua portata (come vorrebbero farcela credere).
Le vaccate mediatiche sono altre, ad esempio i titoloni "Francia sotto assedio".



09/01/2015 15:45

quello si
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