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La maledizione del Pierlo: realtà o leggenda?

Ultimo Aggiornamento: 19/11/2012 13:38
16/11/2012 12:12


Nessun giocatore nella storia della pallacanestro italiana ha legato in maniera così indissolubile il suo nome ad un club, non lo fece Meneghin che passò da Varese ai rivali di Milano né Walter Magnifico che chiuse la carriera lontano da Pesaro o altri. Pierluigi Marzorati è Cantù, Cantù significa Marzorati. Lo è divenuto nelle sue scelte di vita tanto da legarsi per sempre al suo club e addirittura sposare la figlia del presidente sciur Aldo Allievi, lo è stato nei comportamenti sempre misurati, attenti, seri, profondamente cattolici come nello stile della Brianza dei suoi tempi. Il Pierlo, com’è per tutti i canturini, nacque a Figino Serenza, un paesino in collina appena fuori dalla cittadina tuttora difeso da un piccolo tratto di brughiera dalla città che si espande, arrivò alla AP Cantù a 13 anni dopo gli inizi all’oratorio San Michele. Fu subito chiaro che era un piccolo fenomeno e nel ’69 a diciassette anni fu portato in prima squadra da Arnaldo Taurisano.

Rivoluzionò il modo di intendere il ruolo di playmaker, prima del suo avvento il regista portava con discreta flemma la palla in attacco e vedeva di servire nel modo più degno possibile i compagni. Marzorati non solo era abile in regia ma era atleticamente avanti un decennio, a falcate si mangiava il campo spingendo sistematicamente in velocità contribuendo a creare il marchio di fabbrica di Cantù: il contropiede. Era anche un ottimo realizzatore e dotato di un buon tiro dai 5 metri. Vinse tutto con Cantù: due scudetti, due coppe dei Campioni, coppe Korac ed intercontinentali, un oro agli europei del ’83 ed un argento alle olimpiadi del ’80 a Mosca con la nazionale. Un mito che ha l’onore di vedere, assieme al povero Chicco Ravaglia, la sua maglia numero 14 appesa sulle sacre lamiere del Pianella. A tal proposito una piccola divagazione, con la liberazione della numerazione delle maglie non è giunta l’ora di appendere pure il 6 di Charlie Recalcati, il 13 di Bob Lienhard, l’8 di Beppe Bosa ed il 12 di Antonello Riva? Magari aggiungendo alla salita verso il soffitto il nome di due grandi coach come Boris Stankovic e Arnaldo Taurisano?

Ma torniamo al Pierlo, dopo le grandi vittorie di inizio anni ’80 si cominciò a pensare al problema del suo erede. Corradino Fumagalli era oramai stato bruciato dopo troppi anni di panchina ed il GM Corsolini andò a pigliare un tiramolla bergamasco di Treviglio Alberto Rossini. Pure lui aveva la caratteristica di cavalcare il campo a grandi passi ed aveva la pazienza necessaria per imparare dietro al grande campione. Fu lui allora il suo primo erede quando il Pierlo si ritirò nel Giugno ‘91, con una grande partita di addio al Pianella, Lupo Rossini fece una bella carriera e fu per otto anni il regista titolare ma aveva un grande difetto per il basket degli anni ’90: un tiro da tre macchinoso e poco efficace. Nel frattempo nel settore giovanile cresce un ragazzo col talento grande quanto il suo ego Eros Buratti, fortissimo ed arrogante ma pure sfortunato. Nel ’91 esordisce a 20 anni ma durante l’estate si rompe una gamba cadendo in moto e deve stare fermo per un anno. Torna nel ‘93, riparte da Cervia in B1 e viene poi richiamato alla base, qualche stagione a fianco di Rossini ed un grave infortunio ai legamenti del ginocchio nel 98 che chiude la sua carriera canturina.

Passata l’era Polti vi subentra Corrado che salva il club dalla sparizione ma i quattrini sono pochi ed allora viene richiamato l’ex viceallenatore Bruno Arrigoni che comincia la sua nuova carriera di scopritore di gemme nascoste. Il primo anno è travagliato: Buratti è alle prese col ginocchio ed in regia gioca Terrence Rencher, americano a basso costo che però fa il suo dovere, la squadra si salva tirando fuori nomi mitologici come Max Reale, Filippos Hobson, Lashun McDaniels, il vecchio e commovente Craig Robinson (che ancora non sa come fece ad inchiodare una clamorosa e decisiva schiacciata contro Imola) ed il tiratore polinesiano Georgey Adams. Qui forse nasce il mito della “Maledizione del Pierlo” ovvero la terribile pressione del paragone col passato che soffrono tutti i play che giungono a Cantù, nella rituale visione dei nuovi giocatori nella caldaia del Pianella d’Agosto partono le riflessioni dei tifosi brianzoli che, dopo tanti anni buoni hanno la “Buca dulza” e partono con il classico: ”L’è minga bon, l’è minga un play…”

La stagione seguente si sfiora la tragedia. I giovani americani Alvin Young e Jarred Stephens, presi con convinzione da Arrigoni, si rompono prima di cominciare e vengono sostituiti dal rookie Bootsie Thornton e dall’ex Charlotte Hornets Travis Williams. Il play è il poco più che onesto Srdjan Jovanovic, la Poliform Cantù le perde quasi tutte e prima di Natale il giovane vice Pino Sacripanti viene promosso con un mossa disperata, nel frattempo arriva Marcelo Damiao e dalla Grecia un talento incompreso da quelle parti come Matt Santangelo vuole andarsene. Il prezzo è giusto grazie alla transazione del contratto ed Arrigoni lo porta in Brianza. Santangelo, idolo degli Zags a Gonzaga, è un duro, forse non bello da vedere ma efficace. La chimica decolla e Cantù si salva con una rimonta clamorosa grazie anche ad un canestro perdendo la scarpa del play da Portland, in pieno suo stile.

Cantù vorrebbe pure tenerselo ma costa troppo e l’idea è di affidarsi a sei americani a basso costo ma alto rendimento, nascono i fab six (McCullough, Thornton, Hines, Stonerook, Lindeman, Hoover) ed a Cantù si vede il miglior basket da anni: spettacolare, travolgente… il play è Jerry McCullough, il meno sconosciuto dei sei e reduce da una buona annata al Pau Orthez. Jerry è una pallina di gomma in grado di rimbalzare fra una selva di avversari, con istinti di regia finissimi e tantissima leadership anche se l’esigentissimo tifoso canturino brontola dicendo che palleggia troppo.

Jerry si ferma due stagione poi “tradisce” (ma ne siamo sicuri?) per Varese, scelta mai digerita dai tifosi, e così viene confermato come play colui che lo aveva sostituito dopo l’infortunio al polso che infranse le speranze di scudetto della Oregon Scientific ovvero Tyson Wheeler. Rapido, mancino, buon tiratore di striscia non lascia ricordi fragorosi ma guida la squadra alla vittoria in supercoppa a Treviso.

Si punta allora, dopo il morbido Wheeler, su un vero duro: Shawnta Rogers, piccolissimo, è alto solo 1.63 ma tostissimo e con la tendenza a non lasciarsi mettere i piedi in testa da nessuno, la squadra gioca divinamente per buona parte della stagione poi si scioglie come neve al sole e Rogers non riesce a convincere i tifosi anche per l’assurdo pregiudizio legato alla sua statura.

Un grosso errore.

Errore perché la stagione successiva si arriva al peggior playmaker di sempre nella storia di Cantù: Nate Johnson. Solo omonimo della selvaggia ala piccola vista due anni prima, viene pescato a bassissimo prezzo nelle minors americane sperando di fare un grande affare. Il ragazzo è spaesato e quando scopre quanto guadagna Kebu Stewart parte con un triste show fatto di misteriosi infortuni e mal di pancia. Viene cacciato per la disperazione e per sostituirlo arriva Davide Lamma che si lancia in ardite dichiarazioni ma poi gioca sempre peggio tanto che per salvarsi Cantù deve chiamare pure il bollito Doremus Bennerman. La peggior sequenza di play mai visti a Cantù. Una nuova stagione con in regia Michael H. Jordan, un combattente che lotta anche con un ginocchio malconcio e Sacripanti decide che è ora di camminare con le proprie gambe lasciando casa.

Arriva Dalmonte e Arrigoni ha adocchiato un rookie appena uscito da Wright State: DaShaun Wood. Il ragazzo ha gli occhi furbi ed assorbe come una spugna, dal primo allenamento si capisce che è un piccolo fenomeno. La gran partenza di Cantù è merito suo e delle sue entrate in area “cavalcando una moto” poi le difese si adeguano e Arrigoni chiama in suo aiuto un talento anarchico come Gerald Fitch. Wood ha ballato un solo anno ma è, a nostro parere, il miglior play visto in Brianza dopo il Pierlo.

L’anno seguente tocca ad un altro rookie Sundiata Gaines, fatica all’inizio, poi col suo basket fisico gioca una parte centrale di stagione eccellente ma, giovane ed inesperto, deraglia nel finale trascinato dai compagni di squadra in pieno motto insurrezionale.

Parte allora l’era Trinchieri e Arrigoni chiama come play uno che seguiva da anni nei suoi peregrinaggi europei e reduce da una bella stagione a Rieti: Jerry Green. Probabilmente tutt’altro che un play puro, clamoroso quando si rifiutava di portare palla contro il press avversario, ma dotato di attributi a capace di canestri vincenti. Si cambia però ancora. Ed in meglio. Arriva Mike Green, un duro, uno sveglio. Si arriva alla finale scudetto, dove fatica contro un fenomeno come Bo McCalebb (ma chi non avrebbe faticato contro di lui?!) e stranamente non viene confermato.

Nella scorsa stagione si fa un certo pasticcio promuovendo in quintetto Cinciarini, primo play titolare italiano dai tempi di Buratti, e pensando di mettere Basile in regia, si fa di peggio chiamando il gaucho Gianella prima ed affidandosi ad un giocatore strano e difficile da inquadrare come Doron Perkins poi. Si arriva infine a Jerry Smith che contribuisce in modo importante alla Supercoppa ed alla qualificazione di Eurolega poi entra in paranoia e, quando cercava di uscirne disperatamente, si spacca un piede.

Concludendo questa lunga, e speriamo non troppo noiosa, carrellata di playmakers canturini la domanda è: la Maledizione del Pierlo esiste? Certamente i tifosi over 40 sono molto competenti e tendono a misurare il valore di un giocatore coi grandi del passato ed in una realtà antica e prestigiosa come Cantù i fantasmi dei grandi giocatori ancora giocano sul parquet del Parini o del Pianella. Certamente l’indole brianzola è seriosa ed un po’ brontolona. Certamente qualche giocatore non è stato all’altezza delle aspettative come Nate Johnson o Doron Perkins. Ma pensiamo che il popolo del Cantucky abbia avuto di ché godere vedendo giocare nel ruolo di play gente come Jerry McCullough o DaShaun Wood ma pure i vari Rogers, Wheeler, Matt Santangelo, Mike Green hanno fatto ampliamente il loro dovere.

No. Nessuna maledizione, solo tanta, tantissima Tradizione e Fede.

Edit: dailybasket.it



Lungo ma meraviglioso
[Modificato da the fire bug 16/11/2012 12:14]
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16/11/2012 12:33

Cantucky [SM=g2490502]
Ne hanno cambiati tanti, il tutto dovuto ad annate con poche risorse economiche che ti fanno cambiare un roster all'anno.
Però con la stabilità da big europea delle ultime tre stagioni, Mike Green avrebbe sfatato la tradizione, meritando di essere punto fisso insieme a Leunen, Markoishvili e Mazzarino.



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16/11/2012 13:32

scritta da un mio ex allenatore tra l'altro...
letto ieri, bellissimo!

mitico craig robinson!
16/11/2012 13:44

ste, se lo ripeti ancora una volta, insieme all'aneddoto della canotta, possiamo farlo allenatore di BC, non solo tuo, ahahahahhaah. Comunque l'è minga bon, l'è minga un play m'ha piegato (quante volte l'ho sentita, quante volte...anche se mio babbo sostiene che lo dissero pure di Marzorati, proprio perché era un decennio avanti e non il solito sifilitico, smunto e sghembo play anni Sessanta) e sono convinto che, arrivasse la reincarnazione di Bob Cousy, lo direbbero anche di lui.
16/11/2012 21:06

La signora (ultrasettantenne) di Albavilla, seduta una fila avanti a me sin da quando ho fatto il primo abbonamento, che borbotta in direzione del nostro play con un braccio alzato mentre lo manda al diavolo è una delle prime 5 cose che mi viene in mente quando penso al Pianella.
16/11/2012 22:26

Wood meglio di McCullough?
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16/11/2012 23:21

forse il più talentuoso?



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17/11/2012 14:06

@ fire: qual è l'aneddoto della canotta, che non lo ricordo???

@ crazy, devi vedere quella sciura quando vai ad arbitrare in promozione ad Albavilla...chiedere ad Iceman...
17/11/2012 16:06

State parlando della Signora Rina? ste, se non era la canotta di UNC, era la maglietta della Giuve, visto che lui è Blue Devil e torinista. Non fece fare allenamento ad un suo giocatore vestito in quel modo.

=Condor11=, 16/11/2012 22:26:

Wood meglio di McCullough?



Io Wood voglio ricordarmelo come quello che arrivò a Malpensa alle 16 e alle 18 era al Pianella a battere la mani, parlottare con Dalmonte e disporre i compagni come gli omini del Subbuteo. In una squadra di rutti, l'unica estate in cui rischiammo seriamente di chiudere (e avremmo chiuso l'anno dopo se non fossero arrivati i Cremascoli), fu l'inaspettata (rookie e di una conference che si fatica a definire anche solo mid-major) àncora a cui quattromila persone si appesero. Leader come nessuno lo è mai stato a Cantù, completissimo, capace di buttare non solo il cuore, ma tutti gli apparati vitali oltre l'ostacolo. Per rendimento ed impatto il miglior giocatore visto a Cantù, insieme a Thornton e Kaukenas.
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19/11/2012 13:38

sì, ora ricordo...era la maglietta dell'Inter, o forse quella della Juve...
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