Larry Brown vuole il miracolo
Dopo il capolavoro di Detroit, nuova e difficile sfida per il tecnico: riportare in alto i New York Knicks. "Qui ho iniziato la mia carriera e qui la finirò"
Assicurano che tanta eccitazione in città per un allenatore non c’era mai stata. Già, perché New York attende il debutto di coach Larry Brown sulla panchina dei Knicks come se in squadra fosse arrivato uno come Tim Duncan. Semplice, Brown ha la fama del mago e la Grande Mela fame di vittorie. Mago perché, nel suo vagabondare sulle sette panchine Nba e Aba, prima dei Knicks, Brown è sempre riuscito a ribaltare il destino delle sue squadre. I Knicks non vanno ai playoff dal 2001 e per una società che da anni spende per i giocatori più di 100 milioni di dollari a stagione sta diventando una situazione insostenibile. Il mago si presenta incravattato e in un elegante vestito nero e, non fosse nota la sua fama per rumorose sfuriate (l’ultima, l’altro giorno contro un arbitro), lo scambieresti per un mite maestro delle elementari.
Ah, altro avvertimento: ciò che dice spesso non corrisponde esattamente a ciò che fa. Sì, un simpatico bugiardo. Il freschissimo esempio è di pochi mesi fa, quando assicurò che l’ultima panchina della sua vita sarebbe stata con Detroit. Così da allenatore dei New York Knicks comincia proprio da qui, con una battuta: "Davvero pensavo che i Pistons sarebbero stata l’ultima fermata. Ma New York sarà davvero l’ultima. Qui ho iniziato e qui finirò". Coach Brown viene da Long Beach, i primi metri quadrati di Long Island, scavalcate Brooklyn e Queens. Figlio di modestissimi fornai ebrei era diventato una stellina locale, idolo di tanti ragazzini dell’epoca, come il comico Billy Cristal, anche lui di quelle parti, che, agli esordi sul palcoscenico, faceva proprio le imitazioni di Brown.
I Knicks, ancora di più dopo il fresco ritiro di Houston, sono una squadra giovane mentre lui ha la fama di amare soprattutto i veterani. Ma si difende così: "E’ un’etichetta che mi hanno cucito addosso. Io amo i giovani e li ho spesso allenati. A Ucla andai in finale con quattro freshmen (al primo anno, ndr), a Detroit ho vinto con Okur e Prince. Comunque quando alleni una squadra vincente non sfrutti più di otto-nove giocatori. E così i giovani rischiano di fare panchina. Del resto San Antonio o i Lakers dei tre anelli non avevano tanti giovani". E quando gli chiediamo come mai non abbia gran simpatia per gli stranieri, lui ha la risposta pronta: "Come dicevo, ho fatto giocare Okur a Detroit. E se il riferimento è a Darko Milicic, dico che non era facile trovargli posto se hai due come i Wallace, Ben e Rasheed. Io faccio giocare chi aiuta a far vincere la squadra".
Far vincere i Knicks non sarà facile, anche se con i recenti innesti di Eddie Curry (nonostante la polemica sul suo stato di salute), Quentin Richardson, Jerome James e Antonio Davis, sono diventati formazione interessante: "Mi pagano un sacco di soldi (circa 10 milioni di dollari a stagione, ndr), spero di fare risultato". Che significa arrivare almeno ai playoff. Del maestro elementare ha il senso della ferrea disciplina. Le sue esercitazioni in campo sono arcinote e ci tiene a ripetere i suoi dogmi anche alla stampa: "Il primo allenamento è stato fondamentale, come sempre. E’ lì che si entra in sintonia con i giocatori. Predico poche cose, ma quelle devono essere eseguite alla perfezione: bisogna essere altruisti e saper difendere bene. Se c’è un fuoriclasse, deve saper diventare un perfetto compagno, mentre chi non è a quel livello deve arrivare a superare se stesso. Semplice no, basta giocare the right way"
Giocare cioè nel modo giusto: è il suo ritornello preferito. E per trovare the right way è capace di interrompere la lezione, pardon l’allenamento, infinite volte, un po’ come faceva Arrigo Sacchi. In particolare a Detroit e Philadelphia, dove rispettivamente ha vinto ed è arrivato in finale, le sue lezioni sono state efficaci, ma anche a Kansas, portata al successo Ncaa, unico allenatore in grado di vincere sia nella Nba che al college. "Vincere il campionato con i Knicks? Anche a Philadelphia nessuno si aspettava potessimo arrivare in finale". Attenzione alle sue promesse, però, sono quelle di un simpatico bugiardo.
Massimo Lopes Pegna
www.gazzetta.it