Giardini: «Insegno ai bambini come arrivare in azzurro»

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00martedì 4 marzo 2008 12:02

Giardini: «Insegno ai bambini come arrivare in azzurro»

- Il Resto del Carlino -

CHE GIANNI Giardini non potesse stare lontano a lungo dal campo di basket lo pensavano in molti. Quando e dove lo avremmo rivisto allenare restava un mistero. Dopo aver fatto e vissuto la storia del basket bolognese dal 1964, Gianni, dall’ottobre 2007, aveva lasciato la Virtus, società con la quale aveva vinto tanto. Ora, dopo un anno di pausa, lo ritroviamo in palestra con il minibasket del Castiglione Murri; a divertirsi, a fare divertire, a insegnare sport ai ragazzini del 2001.

«Diciamo che la voglia di allenare non mi era mai passata anche se quest’anno non l’ho poi vissuto tanto male. Ma un giorno ho letto sul Carlino dei 40 anni del Castiglione Murri. C’era una foto di Dan Peterson con Massimo Sacco, giocatore che allenai e che, partito da questa società, allora Vulcal, raggiunse la serie A. E’ stato come un messaggio: ho capito che quello era il mio posto, lì dovevo tornare per chiudere il cerchio della mia storia».

Una storia lunga. Come ha iniziato?
«Era il 1964. A quei tempi il basket stava prendendo piede ma non esisteva una vera attività giovanile. Tutto ruotava attorno alle parrocchie, frequentavo quella della Annunziata. Un giorno ci venne l’idea di iscriverci a un vero campionato e padre Ludovico Ferrari diede a me l’incarico di allenare il nostro gruppo di ragazzi. La squadra, chiamata Vultur, partì dalla prima divisione e con fortune alterne continuò fino al 1969 quando dall’unione con la parrocchia di Castiglione nacque la Vulcal che scalò in pochi anni dalla prima divisione alla serie C. Dal ’64 al ’79 non lasciai mai quella realtà anche se nel contempo allenai due anni in Fortitudo (72-74) e feci due stagioni, come assistente, in A nell’allora Fernet Tonic (75-78). Dal ’79 mi dedicai solo al settore giovanile della Virtus».

Quasi trent’anni nelle giovanili Virtus. Quali sono i giocatori che ricorda con più piacere?
«Beh, le prime soddisfazioni vennero con Massimo Sacco, Franco Rizzardi e Mario Ghiacci, partiti dalla Vulcal e arrivati in serie A. Ricordo poi Albertazzi, del ’57, anch’egli in A con Fortitudo e Ferrara. Nel Fernet Tonic allenai Meo Sacchetti, arrivato in Nazionale. Vidi giocare, ma non allenai mai direttamente, il giovane Stefano Pillastrini alla parrocchia di San Savino, a Corticella. Per Emilio Marcheselli dovetti recarmi personalmente a Budrio per sbloccare un problema di cartellino. Davide Bonora l’avevo visto giocare da piccolo con la sua scuola durante il trofeo Seragnoli. Provai ad avvicinare Davide al basket ma lui non ne voleva sapere, voleva giocare a calcio. Poi pian piano lo feci giocare durante gli allenamenti del fratello maggiore e dopo un po’ Bonora scelse il basket. Anche lui è finito in Nazionale. E così via via fino a Belinelli che vidi giocare una volta a San Giovanni e che mi colpì subito per il talento offensivo».

Torniamo a lei, Gianni. Quali sono le motivazioni e le soddisfazioni che la spingono ancora, giorno dopo giorno, a entrare in palestra?
«La motivazione per me resta sempre la stessa, indipendentemente dalla squadra che seguo, dalla società in cui alleno. E’ la soddisfazione di vedere i miei ragazzi crescere nella tecnica, nel fisico e nella mente all’interno del gruppo».

Cos’è l’allenamento?
«Quando iniziai, era per me solo trasportare in campo le nozioni tecniche in mio possesso. Poi capii che è molto di più. E’ la rappresentazione dell’energia trasmessa dall’allenatore alla squadra. Ora credo fortemente che la palestra sia il luogo in cui si progetta e si costruisce giorno dopo giorno un sogno in cui tutto il gruppo si deve riconoscere».

I primi gruppi da lei seguiti erano i ’47, ora lavora con i 2001. Come sono cambiati i ragazzi e com’è dovuto cambiare lei?
«Credo che i bambini siano cambiati solo apparentemente. La storia e la società si depositano sopra, ma il bambino è sempre lo stesso. Compito di un istruttore è incidere su quei sentimenti che sono da sempre gli stessi: felicità, gratificazione, obiettivi, gioia per un successo o dispiacere per una sconfitta. Questo è quello che, pur adattandomi ai tempi, ho sempre cercato di fare: creare un rapporto con i ragazzi tale che vedano in me l’interprete e il complice del loro entusiasmo».

Sembra tenere molto a questo concetto.
«E’ così. Il nostro obiettivo è far germogliare nei ragazzi una gran passione, non secondaria e non imposta. L’allenatore, in questo, è una figura chiave. Anche l’educazione, che in palestra è tra i nostri compiti principali, non deve essere imposta né deve soffocare la loro personalità. Deve essere la conseguenza di un sano rapporto di gruppo, all’interno della squadra. Per questo ho sempre cercato di pormi non di fronte, bensì al fianco dei miei ragazzi».

Marcello Degli Esposti

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