“I CUBI”
Silvi. Profonda periferia. Spartiacque tra due provincie, quella di Pescara a sud e quella di Teramo a nord, che hanno entrambe poco a che fare con questa cittadina di appena 12.000 abitanti. Una terra di nessuno, insomma. Nasce in estate, con l’arrivo dei turisti, e muore con la partenza degli stessi. Il lungo letargo invernale è logorante, infinito. In sintonia con il letargo in cui cade la città, i suoi abitanti divengono più freddi, indolenti, quasi apatici. Per fortuna, però, a Silvi si gioca a pallacanestro.
Oltre all’oratorio, snobbatissimo dai noi giocatori, esiste solo un altro playgound sul suolo silvarolo: i “Cubi”, così denominati dalla vicinanza del residence omonimo, ammasso di costruzioni in cemento di colore verde, orribilmente squadrate. Se vai a giocare ai Cubi, è perchè hai programmato di farlo, sai già chi c troverai, sai perfino le squadre, perchè l’hai organizzata tu la partita. Ai Cubi è impossibile trovare gente che, passando di lì si è fermata a fare due tiri. I Cubi sono nascosti, lontani dal centro cittadino. Anche i rumori dei palleggi, delle grida, delle mattonate sul tabellone, sono soffocati dall’assordante e continuo transito di treni sulla ferrovia che letteralmente costeggia il campetto. In sintonia con la città, i Cubi sono una terra di nessuno, invisibile, irrilevante ai più. E’ tutto quello che abbiamo, tuttavia. E allora, con tenacia e orgoglio, ci attacchiamo a quel poco che c’è.
Circondato da una alta rete per tutti e quatto i lati, il campetto è accessibile solo da un cancelletto, perennemente, malinconicamente aperto. Il campo è di dimensioni regolamentari. Tuttavia ciò non significa affatto che i due canestri siano entrambi agibili. In un impeto di fisicità eburnea, un coglione indigeno si è appeso al ferro del canestro sud, mettendo a repentaglio l’integrità del ferro e la sua reputazione. Entrambe sono andate purtroppo perse. Ferro spaccato e tonfo comico dell’indigeno che si è pure fatto male (tiè!). Un asfalto grigio funge da fondo. La scarsità di catrame nell’impasto dell’asfalto fa si che spesso e volentieri granelli di ghiaia si distacchino dallo stesso, rendento scivolosa la pavimentazione, che, in certi punti, al passaggio, alza addirittura della polvere grigia tipo cavallo che galoppa nel Far West. Le linee classiche di un campo all’europea (lunetta trapezoidale, tiro da tre a 6,25), in alcuni punti lasciano spazio all’immaginazione dei giocatori, e contribuiscono alla vivacità del gioco creando lunghe controversie ed efficaci diversivi per prendere un po’ fiato. Ma il vero punto forte dei Cubi è la location, in particolar modo le costruzioni adiacenti. Come già detto, il residence “i Cubi”, a est del campo, non è esattamente espresione di buon gusto, nè tantomeno di arte moderna. Ma sicuramente pittoreschi ed interessanti sono i suoi abitanti. Puttane, immigrati più o meno clandestini, anziani bisbetici, e Dio solo sa che c’è dietro alla siepe che delimita la strada dai palazzi. Dal lato opposto sorge la già citata ferrovia, scenario di frequenti scorribande fulminee per recuperare il pallone dopo tiri particolarmente impossibili o prestazioni poco esaltanti (tutt’altro che infrequenti, ahime...) .
Come se non bastasse, sul lato sud il cemento si trasforma in terra battuta per fare spazio (come visto che non ce n’è abbastanza su giornali e televisioni) ad un campo di calcio, per permettere all’”italiano medio” silvarolo di svagarsi giocando al suo sport preferito. Puntualmente, gli attriti tra i calciatori e i cestisti sfociano in variopinti ed effervescenti scambi di “opinioni” allorchè la palla bianca e nera sconfina, causa una zappata clamorosa di un emule di Ronaldinho, nel campo da basket, guardacaso nel preciso istante in cui la partita diventava più interessante. Dulcis in fundo, sul lato nord il playground si affaccia su un campo scout, anch’esso nascosto e invisibile, ma che al sabato improvvisamente prende vita e si popola di marmocchi e preti. Preti, appunto, che al dolce suono delle ingiurie scaricate come proiettili da un Kalashnikof dai suddetti calciatori e cestisti, si fanno puntualmente portatori della parola di Dio, intervenendo non come pacieri, ma come inquisitori, condannando le due fazioni. Siamo noi, però, che ce lo dobbiamo sorbire più di tutti, per la vicinanza, ovviamente. Il posto ideale dove far crescere i vostri figli, insomma. Come ci insegna la scienza, tuttavia, la natura fa sì che anche nei territori più ostili, la vita riesca a prosperare. Analogamente, noi giocatori, come minuscoli batteri su una immensa lastra di ghiaccio antartico, prolifichiamo, giochiamo con passione, cercando di sopravvivere. Ma è dura. In passato sussisteva uno “zoccolo duro” della tradizione cestistica silvarola, che frequentava assiduamente i Cubi. Parliamo degli anni novanta. Questo gruppo ormai non esiste più, ed il campetto è passato via via nelle mani delle generazioni delle giovanili del BasketBall Club Silvi, la squadra locale, nella quale ho militato diverse stagioni. Col passare degli anni, tuttavia, l’interesse per il basket è sceso, e con esso le iscrizioni alle giovanili. La conseguenza fu la decandenza del playground. La vita cestistica ai Cubi è sempra stata problematica, difficle, una lotta per la sopravvivenza. Quando giocavamo, sapevamo che avremmo dovuto affrontare le difficoltà sopra citate, ma non ci scoraggiavamo. Muso duro e tanta volontà: nessuno ci ha mai scacciato da quel playground, e nessuno lo farà mai. Forse, però, proprio tutte queste difficoltà hanno creato in me quell’ideale di basket come “missione”, come ideale da difendere a tutti i costi. La distanza da casa, i vecchiacci rompipalle, le meretrici che accoglievano i loro clienti, i preti ipocriti e le offese dei calciatori hanno forgiato il mio animo cestistico e amplificato in me l’amore incondizionato per la palla a spicchi. D’altr’onde incaponirsi a fare qualcosa nonostante le difficoltà oggettive è un comportamento psicologico frequente (perchè crediate il mio soprannome sia Kaprone?) . Alla luce di ciò, sono convinto che i Cubi abbiano concorso in maniera determinante alla creazione del mio carattere, insegnandomi a difendere la libertà, and impegnarmi in quello che amo nonostante le difficoltà esterne, a fregarmene di ciò che gli altri dicono e fanno per cercare di abbatermi, di farmi cadere, di sconfiggermi. Sicuramente esistono playground migliori dei Cubi. Ma ai Cubi non impari solo a giocare a basket. Catturi l’essenza profonda, le istanze che accomunano la pallacanestro alla vita. Il confronto, la fatica, la volontà.
Kaprone - Francesco Florindi