A 41 anni e dopo 19 stagioni "Il postino" si ritira. Non ha mai vinto l'anello e non ha battuto il record di Kareem, ma è stato la più forte al grande di sempre.
NEW YORK, 14 febbraio 2005 - Dice basta Karl Malone, e se ne va un pezzo di storia della Nba. Non è retorica. “The Mailman”, il Postino, si ritira con tutte le carte in regola per essere ricordato come la più forte ala grande di tutti i tempi. “Grazie” è il messaggio che lascia nella sua conferenza stampa di addio, tenuta al Delta Center, il palazzetto degli Utah Jazz. Grazie a tutti quelli che gli sono stati vicini in una carriera irripetibile. Si fa prima, molto prima, a dire ciò che non è riuscito a raggiungere, piuttosto che elencare trofei, riconoscimenti, vittorie e obiettivi centrati. Karl Malone si ritira senza mai aver vinto un titolo Nba e senza aver superato Kareem Abdul Jabbar nella lista dei migliori marcatori nella storia della lega (rimane secondo, con 36.928, a soli 1.459 punti dal primo posto).
Affronta i due temi dal podio del Delta Center: “Non sto qui a mentire: non aver vinto un anello Nba è un grande rammarico. Il titolo è un obiettivo di squadra. Il titolo è ciò per cui giochi. Il record di Jabbar? È un obiettivo individuale e quando sono entrato nella Nba, snobbato da 12 squadre, mi sono ripromesso che non avrei mai inseguito un record personale”. Per il resto, ogni altra soddisfazione, nessuna esclusa, il cowboy della Louisiana se l’è tolta. Alla grande. Non doveva essere così, se si guarda agli inizi. Sfiora i 21 punti con oltre 10 rimbalzi a sera al primo anno di college, ma la maglia è quella di Lousiana Tech, non certo una powerhouse universitaria con gli occhi di tutti gli scout addosso. Le medie, peraltro, scendono sia nel secondo che nel terzo anno e con esse la considerazione e l’attenzione di quelli della Nba. Certo, 16.5 punti e 9 rimbalzi da junior, ma anche una percentuale ai liberi appena sopra il 57% e un talento tutto ancora da sgrezzare.
Il corpo c’è, quello si vede, ma i professionisti non sono convintissimi. Si inserisce qui l’ormai mitico “flirt” italiano con Desio: Malone in Italia, sembra quasi fatta, ma quando oltre oceano, per paura di perderlo, alzano l’offerta, “the Mailman” sceglie di consegnare posta domestica, con affrancatura “Usa”. Inizia così, con la maglia degli Utah Jazz che lo scelgono con la numero 13 al draft 1985 (“Grazie a Larry Miller che ha visto qualcosa, in quel ragazzino della Louisiana, che forse neppure io avevo visto”), una carriera incredibile, indissolubilmente legata al nome di John Stockton, playmaker bianco di Spokane, stato di Washington, arrivato nella terra dei mormoni solo un anno prima. Assieme, Stockton e Malone formano per anni la più letale coppia Nba a furia di pick and roll su pick and roll (“Grazie a coach Sloan, che continuava a chiamare lo schema 13”), tanto da proiettare Stockton in cima alla graduatoria tutti i tempi dei migliori passatori Nba (ridicolizzando il record statistico di un certo Magic Johnson) e Malone a stabilire record su record, diventando una minaccia perfino per Jabbar.
“The Mailman” viene votato per due volte miglior giocatore Nba (Mvp) nel 1997 prima e nel 1999 poi; nel 1996, la lega lo inserisce tra i 50 migliori giocatori della propria storia, nello stesso anno in cui l’ala dei Jazz colleziona anche la seconda medaglia d’oro olimpica: dopo quella di Barcellona, con il primo, irripetibile Dream Team, è la volta di Atlanta. Dal 1989 al 1999, per undici anni consecutivi, è incluso nel primo quintetto Nba; negli ultimi tre di questi, il suo nome compare anche tra i primi cinque difensori della lega. Ai Jazz gioca 18 stagioni, diventandone ovviamente il detentore di quasi tutti i record di franchigia, tra cui quelli per punti e rimbalzi. Lascia lo Utah solo prima della stagione 2003-04, nel tentativo di chiudere la carriera centrando il grande obiettivo ancora mancante. Va a Los Angeles, sponda Lakers, a formare insieme a Shaquille O’Neal, Kobe Bryant e Gary Payton, quella che sulla carta dovrebbe essere una delle squadre più forti di sempre.
L’esperimento, come oggi è evidente, non funziona e in finale Malone e i Lakers si vedono privati del titolo dai Detroit Pistons. Per “il Postino”, un triste deja-vu. Due volte, nel giugno ’97 prima e in quello del ’98 poi, i suoi Jazz sono stati a un soffio, veramente a un soffio, dall’incoronarsi campioni Nba. Quel soffio, però, ha il nome e il cognome di Michael Jordan (per lui una piccola “stoccatina” nella conferenza stampa del ritiro: “Per me è finita oggi. Non ci saranno ritorni incredibili. Li ho visti e non mi sono piaciuti. Non sarà il caso mio”). I duelli in finale tra i Bulls di Jordan e Pippen con i Jazz di Stockton e Malone hanno segnato alcune fra le pagine più emozionanti della storia dei playoff Nba, così come le sfide, muscolari e psicologiche, tra l’ala forte di Utah e Dennis Rodman. Dopo aver saltato solo sei partite in 18 stagioni coi Jazz, l’ultimo anno coi Lakers lo vede soccombere a qualche infortunio di troppo. Quest’anno, mentre cerca di recuperare per tornare in gialloviola, arrivano le dichiarazioni di Bryant che lo accusano di aver cercato di “flirtare” con sua moglie, Vanessa. Amareggiato, Malone scopre di non aver più ciò che considera necessario per andare avanti: “Bisogna essere al 100% mentalmente e al 100% fisicamente. Se non posso portare in campo questo 200%, non voglio continuare”. Così, nonostante le offerte degli Spurs e il colloquio con coach Popovich, Malone ha scelto di dire basta. Le prossime volte che tornerà a far notizia sarà perché i Jazz gli ritireranno la sua maglia numero 32 e la Hall of Fame, presto, gli aprirà le sue porte.
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